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L’esperienza di Fatima

Fatima Camara, 20 anni nata a Saint Louis, vive con la sua famiglia a Roma dove ha frequentato il liceo linguistico in cui si è diplomata.

Fatima, cosa ti ha spinto a partire per il Servizio Civile Nazionale all’estero?

Da tempo svolgo attività di volontariato, essendo cresciuta con dei genitori molto impegnati nel sociale, specialmente mio padre, che mi ha sempre spronato a fare questo tipo di esperienze. Ho cominciato con le piccole associazioni di immigrati sul territorio di Aprilia (LT) e nell’associazione di volontariato dei senegalesi nel Lazio fondata da mamma e papà. Successivamente, dopo una collaborazione con l’Avis, sono arrivata al COMI dove facevo lezione di italiano per gli stranieri. È qui che ho iniziato a sentir parlare del Servizio Civile. Ciò che mi ha spinto a partire è stata, dunque, la ricerca di un’esperienza più strutturata, più organizzata e di più lunga durata che mi formasse e che esaudisse la mia crescente curiosità sul mondo della cooperazione allo sviluppo, in vista dei miei prossimi studi universitari.

Quando si fa domanda per partecipare al servizio civile si consulta la lista delle ONG accreditate, dove ci sono le informazioni sui paesi di intervento e i progetti in corso. Come sei arrivata in Senegal, è stato per il paese o per il progetto del COMI?

È stato decisamente più per il Paese che per il progetto. Essendo io senegalese, ho visto questo progetto come un’opportunità per tornare a casa, dove mancavo da più di cinque anni e, soprattutto, la possibilità di rendermi utile nel mio Paese di origine. Ciò non toglie il fatto che il progetto mi abbia colpito in quanto affronta problemi e tematiche a cui sono molto interessata, come ad esempio la questione dei talibé (i bambini che frequentano la scuola coranica).

Quale è stata la prima impressione una volta arrivata a Kaffrine?

Non saprei esattamente dire quale sia stata la mia prima impressione di Kaffrine, ma posso affermare che è una faccia del Senegal che non conoscevo. Molto diversa dai luoghi a me più familiari. Se si osserva bene, si percepisce che Kaffrine è un grande villaggio attorniato da rispettivi piccoli villaggi, ma ha subito un notevole processo di urbanizzazione. Forse la prima vera impressione che ho avuto, una volta arrivata a Kaffrine, è stata che fa un caldo torrido, che ci sono tanti giovani e che la teranga senegalese (l’accoglienza) si fa sentire anche qui al Sud.

 

Prima della partenza hai partecipato a un periodo di formazione durante il quale, tra le tante cose, vi siete preparati e informati sulla realtà del paese di destinazione. Ora che sei qui, cosa ti ha sorpreso positivamente del Senegal e cosa negativamente?

Anche se ci si informa sul Paese prima di partire, la realtà che si trova è comunque sempre diversa quando la si vive in prima persona. Il Senegal lo conosco abbastanza, ma anche io ho avuto le mie sorprese. Negativamente mi ha sorpreso il fatto che qui il toubab (bianco) è ancora visto come una sorta di bancomat, con denaro a disposizione, e dunque spesso succede che ti chiedano soldi non solo i mendicanti, ma anche le persone comuni. I giovani ancora sognano l’Europa e la vedono come traguardo ultimo, io invece speravo che, con il passare degli anni, questo mito fosse decaduto. Sempre negativamente mi ha sorpreso la condizione di vita dei talibé che sapevo essere grave, ma dopo aver visitato una Daara (scuola coranica che ospita i bambini) per la prima volta, ho capito che c’era molto più lavoro di quanto tutte e quattro ci aspettassimo. La questione delle Daara è molto complessa. Visitarne una mi fatto prendere coscienza di quanto sia importante un intervento per i bambini che vivono in queste scuole, che spesso non vedono soddisfatte le loro esigenze primarie, come l’igiene personale e l’educazione. Aspetto sul quale noi dell’equipe del COMI, in piccola parte, stiamo cercando di intervenire. La cosa incredibile è che comunque sia queste persone sorridano sempre alla vita: ecco il primo degli aspetti positivi. Inoltre, mi piace vedere che, anche in posti lontani come Kaffrine, i giovani sono molto più informati su quel che succede nel mondo e sulle problematiche sociali, grazie ai media e ad internet, cosa che prima accadeva molto meno.

 

Un consiglio per i tuoi coetanei che vorrebbero vivere la stessa esperienza?

Indipendentemente dal tempo trascorso qui, il consiglio che do ai miei coetanei è di rimboccarsi le maniche e partire, con tanto di forza di volontà, pazienza, determinazione, apertura e, soprattutto, curiosità. Perché un’esperienza del genere ci insegna il vero senso della vita e l’importanza del contributo che ogni individuo può apportare alla società per migliorarla. Partite il prima possibile, anche molto giovani: la cittadinanza attiva non deve aspettare. Comunque sia, questa è un’esperienza fatta di momenti belli e meno belli, ma senza dubbio ti cambia e ti fa crescere sia professionalmente che umanamente.

 

Infine, si dice che il Servizio Civile Nazionale sia il trampolino di lancio per intraprendere la “carriera” del cooperante. Sai già cosa vorrai fare una volta terminata questa esperienza?

Sì, questa esperienza ha reso più chiare le mie idee e, una volta concluso il Servizio Civile, so che mi iscriverò all’università. Ovviamente, spero di rimanere attiva sul campo sociale e, perché no, di fare altre esperienze simili anche durante il percorso universitario. Non so ancora cosa diventerò, ma so che cercherò e troverò sempre un posto dove rendermi utile.