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L’esperienza di Silvia

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Silvia Laterza, 28 anni di Torino, dopo una laurea in cooperazione allo sviluppo, con una tesi sul land grabbing e ricerche realizzate proprio in Senegal, ha deciso di tornare in questo Paese con il COMI per un anno di servizio civile a Kaffrine, lavorando con i bambini.

Silvia perché si decide di partire?

Le ragioni sono tante e possono sembrare banali: si ha la voglia di scoprire un nuovo mondo, fare volontariato, “scappare” dalla routine. Si ha una paura folle prima di partire. Il sentirmi sola ha, infatti, fatto da scenario principale al mio primo viaggio in Senegal per una ricerca sulla cooperazione. La paura di fallire e di capire che forse il “mondo della cooperazione” non fosse per me ha oscurato tutto, ma senza neanche accorgermene, mi sono creata la mia vita e la mia quotidianità in Senegal, svolgendo al meglio la ricerca di studio e sentendomi parte di quella realtà. E quando ho deciso di tornare in Senegal per la tesi magistrale, ho capito d’aver superato la prova e ho capito come le relazioni sociali, l’essere in compagnia, il parlare con l’altro ed ascoltarlo siano aspetti importanti ed essenziali. Soddisfatta ho deciso di darmi una nuova possibilità.

Quando si fa domanda per partecipare al servizio civile si consulta la lista delle ONG accreditate, dove ci sono le informazioni sui paesi di intervento e i progetti in corso. Come sei arrivata in Senegal, è stato per il paese o per il progetto del COMI?

Ho scelto di fare domanda per SCN principalmente per tornare in Senegal. Io faccio parte dei “ripescati”, classe di civilisti che, anche se ritenuti idonei, non è stata selezionata per il progetto per il quale si è fatto domanda. Partecipando al progetto del COMI ho però avuto la possibilità di scoprire una nuova realtà – più rurale che urbana – che non avrei mai vissuto se fossi stata selezionata per il progetto iniziale. Sono molto soddisfatta di come stiano andando le cose; non è facile adattarsi alla nuova quotidianità, non è facile vivere la giornata sforzandosi di capire una lingua, il wolof, tanto differente dalla nostra e non è facile convivere in cinque donne sotto lo stesso tetto, ma le sfide le stiamo affrontando bene, supportandoci l’un l’altra.

Quale è stata la prima impressione una volta arrivate a Kaffrine?

“Uuuuuh madoy”! Tipica espressione piemontese che adattata al contesto significa: “Altro che ripescata e contenta di esserlo quanto, piuttosto: brava scema che te ne sei andata in un paesino sperduto nel niente a 250 km dalla tua amata Dakar!”. Ecco la mia prima impressione. Poi inizi a capire qualche parola in wolof, impari la geografia della città, non ti fai più fregare al mercato ed i 37 gradi diventano la normalità. Nonostante i bambini per strada continuino a chiamarti toubab (bianco), ti senti un po’ più parte del posto ed inizi a vivere la tua nuova vita, ad aver le tue abitudini, ad apprezzare ciò che hai. La nostalgia di casa c’è, ma non sono partita per abbandonare il mio nido, ma per conoscere nuovi posti, per arricchirmi e per metter in discussione ogni mia certezza.

Prima della partenza hai partecipato a un periodo di formazione durante il quale, tra le tante cose, vi siete preparati e informati sulla realtà del paese di destinazione. Ora che sei qui, cosa ti ha sorpreso positivamente del Senegal e cosa negativamente?

Stiamo parlando del Senegal, il Paese della teranga, ospitalità, ma, in realtà, esprime un concetto più ampio e cioè accoglienza, attenzione, rispetto e solidarietà. L’esempio più palese è il nostro primo viaggio in macchina Dakar – Kaffrine, quando abbiamo bucato. Ebbene, siamo state soccorse da baldi giovani che ci hanno smontato la ruota, portato quella di scorta nel paese vicino per farla gonfiare (si, la ruota era sgonfia) e rimontata perfettamente. Qui la gente è sempre pronta ad aiutarti, ad offrirti il suo tempo senza nulla in cambio. È bello vedere come i bambini corrano e giochino per strada o come le donne, portando in testa un’enorme bacinella piena di acqua, abbiano interesse a salutarti e chiederti come tu stia o, ancora, come i bambini talibé (bambini delle scuole coraniche) più grandi, durante il pranzo offerto dalla nostra organizzazione, lascino il posto ai più piccolini. Per quanto riguarda gli aspetti negativi, uno in particolare mi viene in mente. Non riesco a inserirmi nel contesto come vorrei. Non capisco se sia la lingua, o l’essere una donna bianca, o perché io sia una volontaria COMI piuttosto che una singola persona. Penso che il dialogo sia fondamentale per creare una relazione. Trasmettere ciò che si vuole in francese non è facile; subentra allora una sensazione di impotenza e incomprensione che scoraggia a rapportarsi con l’altro. In una piccola città come Kaffrine la donna bianca è vista come una possibilità per scappare dalla realtà locale. Risulta quindi estremamente difficile creare rapporti di amicizia ed innescare quel percorso che permetterebbe di sentire più tuo il luogo. A ciò si aggiunge il fatto di esser servizio civilisti e che si rappresenta l’ONG. Si corre allora il rischio di non comportarsi nella maniera più spontanea e personale, ostacolando ancora una volta la creazione di reali relazioni sociali.

Un consiglio per i tuoi coetanei che vorrebbero vivere la stessa esperienza?

Il consiglio che darei è di non farsi troppe aspettative perché ci si trova sempre davanti a situazioni impreviste che ci posso spaventare e scoraggiare; ma suggerisco di essere sempre pronti ad imparare e curiosi nell’osservare. Grazie al SCN il volontario cresce, scopre parti di se stesso nascoste ed impara a rapportarsi con il mondo esterno.