Comi

Intervista a Niccolò

Niccolò Rotoloni, 25 anni, agronomo, Cesena, Emilia-Romagna

 

Perché hai scelto di partire per il Servizio Civile Universale in Senegal?

La risposta è da dividere in due parti: ho scelto il Servizio Civile per dedicare un anno della mia vita soltanto a me e a chi avrei conosciuto durante l’esperienza, per riflettere e riposare, ma anche crescere. Ho scelto nello specifico il Senegal perché sin da quando sono bambino ho desiderato scoprire l’Africa e la sua cultura; questo progetto, poi, unisce le mie conoscenze agronomiche a miei interessi personali.

 

A che progetto partecipi? Di che si tratta e qual è il tuo ruolo

Partecipo al Progetto di sviluppo rurale, in particolare mi occupo di supportare e monitorare le attività agricole svolte all’interno di orti comunitari della regione di Kaffrine. Da agronomo è molto stimolante scoprire nuove tecniche di coltivazione e cercare assieme alla persone del luogo una soluzione per migliorare le produzioni.

 

Quali sono state le principali sfide che hai dovuto affrontare (sia che fosse all’inizio che in corso d’opera) ? Si sono risolte? Se sì, come ?

La prima sfida è stata sicuramente lo scoglio linguistico,  sia con il francese in città sia col wolof nei villaggi, il che mi ha obbligato a lavorare sempre con un interprete. Anche il piano culturale mi ha messo in seria difficoltà all’inizio: abituato ad altri ritmi di vita e a lavorare diversamente, adeguarsi e comprendere è stato complicato ma passati dei mesi ho compreso molto meglio come comunicare e interagire con i locali.

 

Highlights di quest’ esperienza. Qual è la prima immagine/situazione che ti viene in mente pensando al Servizio Civile svolto finora?

Io che mi trovo nel dietro di un pick-up assieme a dei volontari senegalesi e trasportiamo piante di mango e papaya da donare alla popolazione di un villaggio che ci aspettava contentissima. Una volta arrivati è cominciata una festa, con pranzo infinito di benvenuto e danze tradizionali, dove ho ballato anche io. Emozione indescrivibile.

 

Cosa ti ha colpito dell’ambiente in cui ti trovi?

La capacità di rimanere sempre stupito e sorpreso di ciò che accade intorno a me. Ho imparato a non dare più nulla per scontato e a emozionarmi costantemente.

 

3 parole significative

Stupore→ l’essere continuamente spiazzato dalla realtà che mi circonda, nel bene e nel male

Conoscere → continua conoscenza e scoperta del contesto culturale e di me stesso

Inshallah →rappresenta a pieno il modo di lavorare locale. A volte si traduce in un lavoro sbrigativo, che però per le persone di qui è perfetto: se Allah vuole così, va bene. Un po’ come il migliore dei mondi possibili di Leibniz

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è qualcosa che ci tieni venga detto rispetto l’esperienza del Servizio Civile, il Senegal ecc. Qualcosa che assolutamenti vuoi che passi e che si sappia

Ci saranno momenti difficili, dove la lontananza da casa si farà sentire forte. Ma le soddisfazioni che ti donano le persone senegalesi è talmente alta che ne vale assolutamente la pena. Tornando indietro rifarei tutto. Non fermatevi davanti agli ostacoli, sono quelli che a fine esperienza vi ricorderete con più gioia.

Intervista ad Alessandro

Alessandro, 24 Anni, ha studiato spettacolo e comunicazione, Nus, Valle d’Aosta

  

Perché hai scelto di partire per il Servizio Civile Universale in Senegal?

Le motivazioni per cui ho scelto di partire sono molteplici, innanzitutto era il momento adatto, in quanto terminata l’università volevo staccare un po’ dagli studi e vivere un’esperienza di vita vissuta. In più mi ha sempre affascinato l’Africa e desideravo conoscerne le persone e la cultura, inoltre ero anche interessato ad approcciarmi al mondo della cooperazione internazionale. Infine ci sono anche delle motivazioni più pratiche, per esempio il fatto di conoscere il francese mi ha indirizzato verso un paese francofono e anche il numero di domande e posti disponibili nel bando ha, in piccola parte, influenzato la mia scelta.

A che progetto partecipi? Di che si tratta e qual è il tuo ruolo

Io partecipo a un progetto socio-educativo, che mi vede impegnato all’interno delle scuole pubbliche e delle scuole coraniche (daara).

Due volte a settimana intervengo nelle scuole pubbliche sia come sostegno all’insegnante a cui sono stato affiancato, sia con lezioni da me programmate di francese, matematica, arte ed ecologia.

Invece nelle scuole coraniche, il mercoledì, svolgo assieme a due colleghi locali un corso che comprende varie materie che alterniamo tra francese,  matematica, agricoltura, allevamento, arte e mestieri. Il giovedì, invece, programmiamo un pasto all’interno della daara e passiamo del tempo assieme ai bambini, le donne e il marabout, ovvero il capo religioso della daara, nonché insegnante d’arabo e del Corano.

 

Quali sono state le principali sfide che hai dovuto affrontare (sia che fosse all’inizio che in corso d’opera) ? Si sono risolte? Se sì, come ?

La principale sfida è stata riuscire a stabilizzarmi in un contesto di vita diverso, sia a livello personale che a livello culturale. Infatti appena arrivato a Kaffrine mi ci è voluto del tempo per crearmi dei punti di riferimento e una nuova quotidianità.

Poco alla volta, iniziando a conoscere gli abitanti del luogo, i nuovi colleghi, le attività e gli spazi della città ho cominciato ad ambientarmi e a immergermi in questa realtà, che, essendo totalmente differente dall’Italia, inizialmente disorienta.

Questa prima fase la ricordo comunque con piacere, in quanto la curiosità e la novità di trovarsi in un posto sconosciuto mi ha comunque spinto a reinventarmi e a mettermi in gioco.

  

Highlights di quest’esperienza. Qual è la prima immagine/situazione che ti viene in mente pensando al Servizio Civile svolto finora?

Mi viene in mente la festa del “Grand Magal” di Touba in cui abbiamo vissuto per 3 giorni in un clima surreale di festa, con un sacco di persone sia per la città che nella casa in cui eravamo ospiti, pasti buonissimi e super abbondanti, mangiati a orari impossibili; poi conoscere persone nuove e usanze insolite, il tutto inserito in un’ importante occasione di raccoglimento religioso.

Cosa ti ha colpito dell’ambiente in cui ti trovi?

L’aspetto più affascinante è sicuramente il modo di vivere in comunità, in tutte le azioni quotidiane c’è sempre l’incontro e l’unione tra le persone, sia che siano membri della famiglia o esterni. Sono esemplari il modo di mangiare, tutti assieme dallo stesso grande piatto; o il modo in cui vivono le famiglie, con tutti i membri nella stessa casa; o ancora il fatto che le strade durante il giorno diventino luoghi d’incontro per prendere il té o per discutere. Lo si nota anche dall’aiuto reciproco e lo scambio costante che c’è tra le persone, anche se non si conoscono.

3 parole significative

Adattamento: Questa esperienza ti proietta al di fuori della tua cultura, della tua nazione e delle tue abitudini e ti richiede adattamento a una serie di novità, come la convivenza con gli altri civilisti, che all’inizio sono degli sconosciuti, o i ritmi di vita e di lavoro senegalesi, il grande caldo, il cibo, l’assenza di alcuni servizi e i modi di fare e di interpretare la vita completamente differenti.

Esplorazione: Questa nuova dimensione in cui ti ritrovi immerso ti spinge inevitabilmente a essere curioso e quindi a conoscere le persone, l’ambiente e le usanze che ti circondano, per riuscire realmente a comprenderle. Questo vale anche in una dimensione interiore, in quanto per riuscire a trovare un nuovo equilibrio, bisogna ripensare a diversi aspetti di sé, a molti pensieri e idee a cui si è legati.

Riposizionarsi: in continuità con le altre due parole, alla fine ci si ritrova in una nuova condizione per cui non puoi più comportarti, pensare e lavorare come sei abituato in Europa, ma devi necessariamente “riposizionarti” in un nuovo equilibrio per comprendere e vivere l’insieme di novità che ti circondano.

 

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è qualcosa che ci tieni venga detto rispetto l’esperienza del Servizio Civile, il Senegal ecc. Qualcosa che assolutamente vuoi che passi e che si sappia

Credo che sia importante non farsi aspettative di alcun tipo, sia prima della partenza che una volta stabiliti, perché in qualsiasi cosa, grande o piccola che sia, il Senegal sa sempre sorprenderti. Capita di trovarsi in situazioni impensabili, come viaggiare in una macchina con un montone nel bagagliaio, oppure che un lavoro programmato e organizzato da tempo non si riesca a realizzare per degli imprevisti per noi inconcepibili, come una semplice dimenticanza o eventi religiosi o culturali che prendono il sopravvento.

Quindi ci vuole del tempo per entrare nelle dinamiche e nelle tempistiche del posto che, soprattutto inizialmente, metteranno alla prova la tua pazienza e la tua incredulità, però saranno proprio queste situazioni a regalare delle emozioni e delle esperienze indimenticabili.

Intervista a Graziana

Graziana Fallasco, 26 anni, veterinaria, Venezia, Veneto


Perché hai scelto di partire per il Servizio Civile Universale in Senegal?

Mi ha parlato di quest’esperienza una mia collega di università: mi ha spiegato le attività che svolgeva e l’esperienza in generale e ho subito deciso di candidarmi.

A che progetto partecipi? Di che si tratta e qual è il tuo ruolo

Caschi bianchi per lo sviluppo rurale in Senegal. Io sono un medico veterinario per cui mi occupo di seguire la parte tecnica dei progetti rurali. Attualmente sto seguendo il progetto “Capre ed asini fase 2” che si occupa di trovare modalità per aumentare la produzione di latte delle capre, soprattutto durante la stagione secca, e di migliorare il benessere degli asini, che qui non sono considerati nient’altro che oggetti da lavoro. L’altro progetto si chiama “Una Sola Salute e uguaglianza di genere” ed è un progetto pilota per lo studio delle zoonosi (ossia le malattie infettive che possono passare dagli animali all’uomo), al fine di capire quali sono i rischi principali, quali sono quelle più diffuse e come poter attuare delle tecniche per diminuirne la diffusione; questo progetto ha come beneficiari principalmente donne e ragazze, sempre più esposte alle infezioni

Quali sono state le principali sfide che hai dovuto affrontare (sia che fosse all’inizio che in corso d’opera) ? Si sono risolte Se sì, come ?

Le due sfide principali sono state l’adattamento a una cultura totalmente diversa e la lingua. Per quanto riguarda il problema linguistico, la situazione è nettamente migliorata, grazie a uno studio personale e ,soprattutto, alle conversazioni quotidiane. La cultura, invece, è una continua sfida, ci sono molte differenze ma col tempo ho imparato ad apprezzare lo stile di vita senegalese, anche se a volte è più dura del solito. La concezione del tempo, per esempio, è molto diversa dalla nostra ma solo collaborando insieme si può riuscire a trovare un punto d’incontro.

Highlights di quest’ esperienza. Qual è la prima immagine/situazione che ti viene in mente pensando al Servizio Civile svolto finora?

Il Thiebu Thien: è il piatto nazionale, anche patrimonio dell’Unesco. È il protagonista di tutte le cerimonie e i momenti di condivisione ed è particolare in quanto si mangia tutti insieme dallo stesso piatto e quasi sempre con le mani. Rappresenta appieno il simbolo della condivisione, della comunità e dell’accoglienza senegalese.

Cosa ti ha colpito dell’ambiente in cui ti trovi?

Le case di tutti sono sempre aperte: credo sia una particolarità rappresentativa della cultura locale, tutti sono amici e parenti di tutti e quando una persona ha un problema si cerca tutti insieme di risolverlo. Una delle frasi che ho sentito più spesso pronunciare è “On est ensamble”, ossia “siamo insieme”: ogni volta che ringrazio mi viene detta questa frase, sottintendendo che non devo ringraziare perché aiutando me, l’altra persona sta aiutando la propria comunità e quindi anche se stessa.

3 parole significative

Calore. Sia nel senso di temperature molto calde, che nel senso di accoglienza. Le persone qui sono veramente calorose, a tutti piace parlare e condividere le proprie esperienze e conoscere quelle degli altri. I colleghi ci hanno subito fatto sentire accolti e parte della loro comunità, mai degli estranei.

Fissare. Nel senso di “tradurre” le conoscenze che già avevo a livello puramente tecnico in azioni e pratiche tangibili grazie al lavoro sul campo; quindi “fissarle” in mente in modo diverso, nella loro polidimensionalità

Scoprirsi. Riferito principalmente all’attività con i talibés: non ho mai apprezzato particolarmente la compagnia dei bambini in Italia, invece sorprendentemente qui l’attività che preferisco è quella in Dahara con i talibés.

Vuoi aggiungere qualcosa? C’è qualcosa che ci tieni venga detto rispetto l’esperienza del Servizio Civile, il Senegal ecc. Qualcosa che assolutamente vuoi che passi e che si sappia

Vorrei assolutamente consigliare a chiunque abbia una mezza intenzione di affrontare quest’esperienza di buttarsi e tentarla: non si sarà mai pronti per quello che accadrà e si vivrà, perché i racconti non possono descrivere tutte le sensazioni assurde che si provano, ma ne varrà assolutamente la pena.

 

UNA QUESTIONE DI IDENTITÀ

Figura 1. Foto finale di chiusura del progetto “Mujer Mapuche: Identidad y Territorio” con la presenza dell’autorità del SEREMI (Segreteria Regionale Ministeriale) della regione de “Los Rios”.

Ci troviamo a Malalhue, nel Comune di Lanco, nella XIV regione del Cile chiamata Los Rios, dove il 25,6% degli abitanti si definisce “appartenente ad una popolazione indigena” con riferimento a tutti quelle comunità “che discendono da raggruppamenti umani presenti sul territorio nazionale fin dall’epoca precolombiana, che conservano le proprie manifestazioni etniche e culturali e per i quali la terra è la base principale della loro esistenza e della loro cultura”. Insieme ad altre 8 regioni delle 16 presenti in territorio cileno si pone ad un livello percentuale maggiore rispetto alla media nazionale di 12,8%.

La legislazione cilena riconosce e si impegna nella tutela delle popolazioni indigene attraverso alcuni organismi governativi dedicati come ad esempio la CONADI, la Corporazione Nazionale dello Sviluppo Indigena, nata nel 1993, dalla legge 19.253, i cui obiettivi sono la promozione, il coordinamento e l’esecuzione statale dei piani di sviluppo rivolti alle persone appartenenti alle popolazioni indigene presenti. Quest’ultima, conosciuta anche come Ley Indigena, è uno dei primi organi legislativi che le protegge e riconosce legalmente. Attraverso questo documento e le sue indicazioni, infatti, si presume l’esistenza della diversità culturale ed etnica, autorizzando lo Stato a fornire risorse alle comunità in tutto il paese. Ha rappresentato il primo passo che ha portato all’entrata in vigore nel 2008 della Convenzione ILO n.169, sui diritti dei popoli indigeni e tribali, adottata già nel 1989 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite. Tuttavia, la legislazione è fortemente messa in discussione ancora oggi dalle comunità Mapuche che compongono quasi l’80% delle popolazioni originarie riconosciute nel territorio (nello specifico nel comune di Lanco compongono quasi 1/3 dei cittadini)[1] alle quali non viene legittimata l’identità di popolo-nazione all’interno della Costituzione. Queste cifre ci comunicano come sia forte la presenza nel territorio di persone discendenti da una delle più antiche culture indigene latino-americane.

È in questo contesto che si inserisce ed opera la ONG COMI attraverso il progetto di Servizio Civile Universale “Caschi Bianchi a sostegno della comunità Mapuche in CILE” dal 2021, con la collaborazione del suo partner locale “MEDEMA – Organización Mujeres Emprendedoras”, con l’obiettivo di favorire la transizione verso una maggiore uguaglianza sociale della minoranza Mapuche, proprio nella località di Malalhue. Si propone di farlo attraverso la valorizzazione e conoscenza del patrimonio culturale indigeno ed il rafforzamento delle possibilità professionali offerte dalle attività tradizionali. Il maggior numero di persone provenienti dall’altresì chiamato “Popolo della terra” si concentra nella popolazione giovane e anziana ed è lì che si identificano i potenziali beneficiari di un intervento atto a fornire loro opportunità di mettere a frutto le loro conoscenze e competenze. È per questo motivo che un altro importante proposito del progetto è accrescere la motivazione personale dei ragazzi, attraverso la trasmissione della conoscenza della storia e dell’identità indigena sostenendoli in un percorso di formazione e valorizzazione.

Da un’indagine propria del COMI nel biennio 2018-2019 sulla conoscenza della cultura Mapuche, effettuata nel comune di Lanco su un campione dei giovani tra i 13 e i 19 anni, risulta che solo il 10% di loro la conosce in maniera approfondita. Si nota inoltre che nella stessa località ci sono più di 50 comunità mapuche, registrate con status giuridico, tra cui organizzazioni urbane e rurali, molte delle quali sono organizzazioni femminili, che mirano all’autodeterminazione e al rafforzamento della propria identità e del proprio territorio. Tutto ciò all’interno di una regione dove il mancato senso di inclusione sociale, culturale ed economica tocca soprattutto la popolazione indigena e i più giovani. Lo scardinamento economico e culturale delle tradizioni ancestrali della zona, sta comportando una crisi delle relazioni familiari nelle comunità rurali: l’80% dei Mapuche vive in aree urbane, con una significativa e definitiva perdita delle conoscenze tradizionali sulla coltivazione della terra, sull’artigianato, sulla medicina, sulla storia, sulla filosofia e sulla cultura indigena.

Alla luce di questi fatti, per il secondo anno consecutivo, il COMI in collaborazione con MEDEMA coglie l’opportunità di realizzare un progetto di formazione personale nel contesto della comunità locale di Malalhue.

Questo avviene grazie ai fondi del FFOIP (Fondo per il rafforzamento delle organizzazioni di interesse pubblico), iniziativa promossa dal Ministero della Segreteria Generale del Governo che prevede il finanziamento di diverse organizzazioni e che ha l’obiettivo di promuovere l’interesse generale in settori quali: i diritti dei cittadini, l’assistenza sociale, l’istruzione, la salute, l’ambiente o qualsiasi altro bene comune.[2] Nel concorso FFOIP 2023 (le cui richieste sono aumentate di un 30% comparandole a quelle del 2022[3]) è stata data importanza ai progetti che incentivano soprattutto la partecipazione e l’associatività dei cittadini oltre all’inclusione, all’equità sociale e alla cura dell’ambiente.

“Mujer Mapuche: Identidad y Territorio” (Donne Mapuche: Identità e Territorio), questo è il titolo che individua la proposta di una serie di incontri di formazione che possa proporre degli strumenti utili e validi per la conoscenza della propria identità e la affermazione del proprio io.  Si inseriscono all’interno della macroarea “Impulsando Liderazgos, Participación y Representatividad” (Promuovendo Leadership, Partecipazione e Rappresentatività) e sono rivolti principalmente alle donne (anche se gli incontri sono stati aperti a tutto il pubblico) che fanno parte di associazioni locali, per lo più mapuche, sia che vivano a Malalhue che nelle zone rurali. Nonostante l’attivismo associativo si incontra una difficoltà generalizzata a incentivare la formazione personale ed analizzare i processi politici del paese. La conseguenza si manifesta con una mancanza di interesse e di partecipazione agli stessi, con una parziale consapevolezza dei diritti delle popolazioni indigene e dei possibili cambiamenti futuri a cui volge il Paese. La conoscenza delle proprie capacità e possibilità, oltre che della propria storia, può dare però la possibilità di iniziare un processo di autodeterminazione e autogestione, che permetta di decidere come poter condurre la propria vita e sentirsi protagonisti nel cambiamento.

Attraverso la guida e l’intervento di relatori, tutti, rigorosamente mapuche, si sono potuti trattare diversi temi:

Figura 2. Laboratorio creativo di produzione del proprio albero genealogico all’interno di uno degli incontri.
  1. La famiglia e l’identità. La costruzione socio spirituale e territoriale nel mondo Mapuche si genera attraverso un vincolo fondamentale tra l’essere umano e la natura, con l’obiettivo di vivere una vita in equilibrio. La cosmovisione di questo popolo è legata ai concetti di tuwün (luogo di origine territoriale) e küpal (famiglia) che sono i due elementi fondamentali nell’identificazione della propria identità. È importante anche la connessione con il proprio Melil Fulil Kupalme, traducibile nel concetto di albero genealogico e che identifica le quattro origini familiari nelle figure dei nonni materni e paterni.

Guidati così da Luisa del Carmen Curin Llancavil, formatrice e insegnante del Mapuzungun – la lingua Mapuche – che ci ha accompagnato per tre incontri, approfondendo questi concetti e partecipando ad un laboratorio pratico, dove ogni persona ha realizzato il proprio albero indicando i nomi dei propri cari (nonni, genitori, zii e fratelli). Questo ha permesso ad ogni partecipante di porsi delle domande sulle proprie origini e notare come la conoscenza delle stesse ci caratterizzi e identifichi.

  1. Il concetto del Küme Mogen o Buen Vivir. Difficilmente è traducibile e riconducibile ad un unico significato, ci spiega Guillermo Neftali Jaque Calfuleo, musicista e docente della cultura mapuche. Le definizioni, viste singolarmente, esprimono solo in parte un sentimento di profonda unione armonica dell’uomo con l’ambiente circostante. Al primo termine si possono associare i concetti di: buono, benevolo, bene o tutto ciò che si trova in un certo equilibrio. Al secondo invece: vita, esistenza, soddisfazione o essere (concetto del “qui e ora”). L’uomo appartiene alla Terra (non il contrario) e il legame profondo che si instaura con lei è da considerare sacra. La comprensione profonda di questa relazione porta l’essere umano ad autoregolarsi in base alla natura, a cercare un ordine nella vita dettato innanzitutto dall’osservazione e dal rispetto dell’ambiente in cui si è immersi, un rapporto equilibrato ed interessato alla cura reciproca.

In un successivo incontro è stato anche esposto dal responsabile territoriale in questa regione, Raúl Rupailaf Maichin, il “Plan Buen Vivir”, un’iniziativa presidenziale che nasce dalla necessità di articolare gli sforzi e le risposte progettate dallo Stato, per affrontare il conflitto storico interculturale che comprende le regioni di: Bío Bío, La Araucanía, Los Ríos e Los Lagos.

  1. La salute e il diritto di proprietà della donna Mapuche. Nella visione di questo popolo ancestrale il Buen Vivir ha implicazioni in tutti gli aspetti dell’esistenza, compreso il benestare personale. Perché se vi è una disarmonia con l’intorno, questa si riflette anche interiormente. Gloria Alicia Nahuelpan Allaupan, “Lawentuchefe” (figura medica del Popolo Mapuche) della “Kume Mogen Ruka” dell’ospedale di Lanco, si occupa della gestione della salute di tutti i cittadini attraverso la proposta di una medicina più in linea coi valori tradizionali. Ha raccontato di come sia difficile al giorno d’oggi trovare un avvicinamento da parte della popolazione Mapuche a questi metodi di cura, con una minor incidenza degli stessi, rispetto ad abitanti di altre provenienze. “Il dialogo e l’ascolto stanno alla base della buona riuscita di un percorso di cura e questo processo richiede un periodo che varia per ogni persona” espone Alicia, che integra la proposta di cura con l’utilizzo di preparazioni a base di piante medicinali naturali, secondo la concezione ancestrale. La necessità di un determinato luogo e di un tempo adatto e sufficiente, però, spesso non viene soddisfatta per rimanere in accordo alle norme e al sistema attuale che gestisce la salute.

Infine, si è parlato di diritto di proprietà delle terre con l’avvocatessa Mapuche Carmen Tomasa Caifil, che ha rappresentato la Regione de Los Rios e de Los Lagos, nella stesura della proposta per la nuova Costituzione del 2022. Attualmente il Cile vede ancora vigente, anche se con alcune riforme, quella approvata nel 1980 durante il periodo di dittatura instaurato dal generale Pinochet. [4] Tuttavia, sta vivendo un processo costituente per rinnovarla.

Ci troviamo infatti nel periodo successivo alla vittoria del rechazo (la sua declinazione è stata votata dal 62% degli elettori), avvenuta a settembre 2022, di un ordinamento più attento nei confronti dei diritti sociali, dei popoli originari, della parità di genere e della difesa dell’ambiente. Con risultato un nuovo plebiscito, indetto per il prossimo dicembre 2023, per la proposta di un secondo testo da parte del nuovo consiglio costituzionale, insediatosi il 7 giugno dello stesso anno[5].

Alla luce di ciò, è stato possibile ricercare, leggere ed evidenziare come la Costituzione e il Codice civile stabiliscano le norme, insieme alla Convenzione 169 dell’OIL sui Popoli Indigeni e Tribali e dalla Legge Indigena n° 19.253, che regolano il diritto al possesso di terre e la loro restituzione ai popoli originari.

Prima della Ley Indigena, la politica attuata dallo Stato cileno sin dall’Indipendenza (1818) è stata sostanzialmente caratterizzata dalla volontà di assimilare gli autoctoni ed è possibile distinguere, a seconda del contesto socio-storico, i mezzi impiegati e le forme “legali” di espropriazione di una lunga storia di negazione della specificità indigena e di espropriazione dei territori, abitati da questi popoli.

Grazie alle domande e ai dibattiti creatisi si sono sollevate questioni e risolti dubbi, ma soprattutto è aumentato il livello di consapevolezza e conoscenza, strumenti necessari per difendere i propri diritti.

In conclusione grazie a questo percorso di 8 incontri è stato possibile riunire parte della comunità (anche se con difficoltà) per discutere, esporre, dibattere e ricordare che è ancora importante riunirsi e parlarsi “faccia a faccia” per affrontare i problemi, cercare soluzioni e anche cogliere l’opportunità di incontrarsi e passare del buon tempo insieme.

Questi sono gli obiettivi che ci siamo posti come associazione COMI ed è stata una grande opportunità per noi volontari. Ci ha permesso di introdurci già dall’inizio della nostra esperienza in questo contesto, ma soprattutto di instaurare un primo contatto con comunità locale, con le persone, che sono infondo il motore che genera il cambiamento verso un futuro migliore.

Matteo Tabacchi, volontario COMI in Cile

Figura 3. Momento di confronto e compilazione di un questionario di valutazione finale del progetto “Mujer Mapuche: Identidad y Territorio”

[1] Instituto Nacional de Estadísticas (INE) – Censo 2017-2018

[2] Dal sito ufficiale del Governo Cileno: https://fondos.gob.cl/ficha/segegob/ffoip/

[3] Dal sito ufficiale del Governo Cileno: https://fondodefortalecimiento.gob.cl/

[4] https://www.memoriachilena.gob.cl/602/w3-article-92403.html

[5] Biblioteca del Congreso Nacional de Chile (BCN) 

La storia è nostra e la fanno i popoli

Mostra temporanea a Valencia su Allende e la Unidad Popular a 50 anni dal golpe in Cile. Pubblicato online un documento con le foto dell’esposizione

“La storia è nostra e la fanno i popoli”. A qualcuno risuoneranno in mente queste parole, insieme al ronzio di sottofondo del    microfono. “Sicuramente Radio Magallanes sarà messa a tacere e il metallo tranquillo della mia voce non giungerà fino a voi. Non importa. Continuerete a sentirla”1. A parlare era il Presidente del Cile Salvador Allende, poco prima di suicidarsi (almeno questa è la versione ufficiale) durante il colpo di Stato che quel tragico 11 settembre 1973 avrebbe inaugurato la dittatura militare di Pinochet. Per i 50 anni dal golpe, Museo Nazionale di Ceramica  e Arti Suntuarie “González Martí” di Valencia, ospiterà dall’11 ottobre al 4 dicembre una mostra temporanea, intitolata appunto La historia   es   nuestra,   con   maioliche   (lozas),  ossia miniature in ceramica dipinte, su Allende e la coalizione con cui fu eletto, la Unidad Popular (UP)2. Da giungo a settembre è stata esposta presso il Museo Nazionale di Antropologia di Madrid.

Le artiste, Greta Cerda e Marta Contreras, con la supervisione del museologo Rolando Báez e dello storico Mario Amorós, hanno realizzato 19 “scene”, cioè composizioni con varie maioliche (qui non ci sarebbe lo spazio per commentarle tutte), “dando una nuova dimensione sociale e politica alle tecniche tradizionali  e mestizas (cioè meticce,  ma senza significato dispregiativo 3 ) della creta variopinta di Talagante, località vicina a Santiago del Cile”4, come si legge sul sito del Ministero della Cultura e dello Sport del Governo spagnolo (dove è possibile anche scaricare gratuitamente un documento con le foto di tutte le scene, corredate da scritti delle artiste e dei curatori). La mostra ricorda questi avvenimenti di rilevanza mondiale anche attraverso la canzone popolare, con le composizioni del duo Canto e Porfía, e le fotografie dell’archivio storico della Biblioteca Nazionale Cilena, per lo più di Armindo Cardoso, fotoreporter che accompagnò Allende durante tutta la sua vita politica, cedute generosamente da questa istituzione per l’occasione. 

Il progetto è stato finanziato da varie istituzioni cilene, come il Fondo Nazionale dello Sviluppo Culturale del Ministero delle Culture, delle Arti e del Patrimonio del Cile (si noti il plurale culture, che intende includere anche quelle indigene).

Ma chi era Salvador Allende? Il suo nome in Cile evoca ancora divisioni ed aspre polemiche. Si tratta della prima personalità politica dichiaratamente marxista ad essere stata democraticamente eletta presidente di un qualsiasi Paese delle Americhe e, secondo alcuni, del mondo. Promosse una serie di importanti riforme sociali, come quella agraria, nazionalizzò la stragrande maggioranza di miniere, banche, grandi industrie e aziende. Combatté inoltre la malnutrizione infantile e promosse iniziative per l’accesso delle masse alla cultura e all’istruzione. Questo era il suo programma per quella che chiamava la “vía chilena al socialismo”, un percorso democratico e rispettoso dei diritti umani, delle libertà politiche e delle “norme del Diritto Internazionale, il quale”, come affermò Allende nel suo discorso all’Assemblea generale dell’ONU nel 1972, “non ha motivo di essere identificato con gli interessi delle grandi imprese capitaliste”5.

La mostra ripercorre i suoi tre anni di governo, dal 1970 al 1973, a partire dalla chiusura della campagna elettorale a Talagante. La UP era una coalizione di vari partiti di sinistra, come il Partito Socialista (di cui Allende fu tra i fondatori e principali esponenti), il Partito Comunista e il Movimento d’Azione Popolare Unitario, la cui siglia,MAPU, significa “terra” in mapudungun, la lingua del popolo indigeno mapuche, molto numeroso in Cile (oggi rappresenta circa il 10% della popolazione nazionale). E furono proprio i mapuche che Allende menzionò per primi nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 5 novembre 1970 nello Stadio Nazionale di Santiago del Cile (quello che sarebbe divenuto tristemente noto per le torture avvenutevi durante la dittatura). “Siamo qui oggi, compagni”, esordiva il Presidente neoeletto, “per commemorare il nostro trionfo. Ma anche qualcun altro vince oggi con noi. Sono qui Lautaro e Caupolicán”6. Questi ultimi erano due famosi toqui (cioè capi militari mapuche) che si distinsero nel Cinquecento nella guerra contro i conquistadores spagnoli.

Alcune delle scene riguardano importanti conquiste sociali raggiunte dal governo della UP, come la già citata riforma agraria, che, in condizioni democratiche e nel rispetto della legge, redistribuì 6,6 milioni di ettari di terra ai contadini, di cui 80 mila ettari furono restituiti ai mapuche. Un’altra scena ricorda la nazionalizzazione delle imprese estrattrici di rame, fondamentale risorsa del Paese che era in mano a multinazionali straniere, soprattutto statunitensi, come la Anaconda (un nome, un programma) e la Kennecott Copper Corporation, che fatturavano profitti enormi (Allende calcolò che dal 1930 al 1972 ammontassero a 4 miliardi di dollari7), senza che lo Stato cileno ne beneficiasse in alcun modo. Un’altra scena ancora raffigura la campagna del “mezzo litro di latte”, con cui il governo, per combattere la mortalità infantile, che aveva cifre allarmanti (il 20% dei neonati moriva prima di aver compiuto un anno a causa della malnutrizione), assicurò ogni giorno questa quantità di alimento a ogni persona che avesse meno di 15 anni, nonché alle donne incinte o in fase di allattamento.

La mostra dà ampio spazio anche alle iniziative di carattere culturale promosse da Allende. Una scena, ad esempio, è dedicata alla casa editrice Quimantú, di proprietà statale, che pubblicava libri a grande tiratura e a prezzi molto bassi, che spaziavano nei campi più disparati (dalla letteratura alla politica, da racconti per bambini alle scienze sociali) e che per la prima volta divennero di facile accesso per la maggioranza della popolazione. Da notare che Quimantú è la fusione di due parole in mapudungun: antü, “sole”, e kimün, “sapere”, per cui significa “sole del sapere”. Un’altra iniziativa per l’accesso delle masse alla cultura fu il “Treno popolare della cultura”, ricordato in un’altra scena di Greta Cerda. Sfruttando il sistema ferroviario nazionale, allora molto più sviluppato (oggi prevale invece di gran lunga il trasporto aereo e su gomma dei passeggeri, con tutte le conseguenze in termini di inquinamento), per 40 giorni 60 artisti dei campi più diversi percorsero oltre mille chilometri per il sud del paese, esibendosi davanti a pescatori, contadini, minatori e comunità mapuche.

Dal ‘70 al ‘73 il Cile conobbe infatti una grande effervescenza culturale, in cui si inserì anche la cosiddetta Nueva Canción Chilena, soggetto di una scena di Marta Contreras. Si tratta di un movimento musicale nato dalla valorizzazione della musica popolare, portata avanti da artisti del calibro di Violeta Parra, la quale studiò molto anche la cultura e la musica mapuche8. La Nueva canción chilena era influenzata dal folclore indigeno, contadino, da cantautori latinoamericani ed impiegava la musica e gli strumenti andini (nella scena si vedono, ad esempio, un flauto e un charango), si faceva portatrice delle istanze dell’epoca di maggiore uguaglianza sociale e comprendeva i figli di Violeta Parra Ángel e Nicanor Parra, nonché gruppi come i Quilapayún e gli Inti Illimani. Questi ultimi incisero un album nel 1970, Canto al programa, interamente dedicato al programma di Allende, di cui ogni canzone spiegava un punto.

Proseguendo per la sala vediamo Pablo Neruda, rappresentato nell’atto di ricevere il premio Nobel. Questa scena aiuta anche a chiarire perché la mostra sia esposta proprio in Spagna, così lontano dal Paese sudamericano. Nel 1939, infatti, il noto poeta, che fu anche militante comunista, in qualità di Console Speciale per l’Immigrazione Spagnola, organizzò l’arrivo in Cile sulla nave Winnipeg di oltre duemila repubblicani, esiliati dalla dittatura franchista che si era instaurata in Spagna. Nel ‘71 l’Accademia di Stoccolma conferisce allo scrittore cileno il Nobel per la letteratura, poiché “è autore di una poesia che, con l’azione di una forza elementare, dà vita al destino e ai sogni di un continente”.

Un’altra scena si intitola L’inizio del complotto (Nixon e Kissinger) e raffigura questi ultimi (rispettivamente il Presidente degli Stati Uniti e il suo Consigliere di Sicurezza Nazionale) che già nel novembre del ‘70 cominciarono, con il sostegno della CIA e con ogni mezzo legale e illegale, come provano documenti desecretati successivamente, a cercare di destabilizzare il governo Allende, tramite pressioni economiche e diplomatiche. Il governo USA temeva che in Cile potesse scoppiare una rivoluzione armata comunista che instaurasse uno Stato socialista monopartitico, come avvenuto a Cuba, ma era preoccupato ancor di più all’idea che ciò non accadesse e che il Paese australe continuasse a essere la dimostrazione storica, come di fatto lo è stato per tre anni, della compatibilità fra comunismo, democrazia e libertà politiche. Il Cile era un modello di rivoluzione marxista nonviolenta e di alternativa possibile al capitalismo, che poteva estendersi a macchia d’olio in America Latina e in altri continenti.

In fondo alla sala, al centro9, è rappresentato Allende che pronuncia il suo famoso discorso all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1972 a New York. “Vengo de un país pequeño” c’è scritto in stampatello appena sotto la scena: “Vengo da un piccolo Paese”, parole che pronunciò all’inizio del suo lungo e coraggioso intervento, in cui denunciava “davanti alla coscienza del mondo” 10 le ingerenze dell’imperialismo statunitense nella vita economica, politica e sociale cilena. È difficile descrivere l’impressione di solennità che si prova guardando. Sembra di essere in un mausoleo, un santuario laico dedicato alla memoria di un gigante del Novecento, eppure rappresentato così piccolo, come tutte le altre sculture in miniatura. In questo caso, però, risalta ancor di più il contrasto fra le dimensioni scena (e della teca che la contiene) e la grandezza delle scritte che occupano quasi tutta la grande parete bianca. Sembra suggerire l’idea non solo della statura morale del personaggio, ma anche quella dell’asimmetria di potere che affronta chi, con un enorme coraggio, alza la voce contro i potenti del pianeta, pur venendo “da un piccolo Paese”, molto spesso dimenticato dal Nord del mondo se non per mire neocoloniali.

Furono proprio queste mire ad avere la meglio l’11 settembre 1973, con il colpo di Stato del comandante dell’Esercito cileno, il generale Augusto Pinochet, il quale tradì la fiducia di Allende che gli aveva da poco conferito quell’incarico. Gli Stati Uniti e la CIA finanziarono segretamente i golpisti, che bombardarono il Palacio de la Moneda (il Palazzo presidenziale), rappresentato nella penultima scena in fiamme, mentre in primo piano le guardie fucilano i dissidenti. Asserragliato nella Moneda, Allende resistette con i suoi (fra cui anche il giovane scrittore mapuche Luis Sepúlveda Calfucura, che faceva parte delle sue guardie del corpo, il Grupo de Amigos Personales). Quando ormai fu certa la vittoria dei golpisti, Allende pronunciò lo storico discorso a Radio Magallanes, in cui disse le famose parole ricordate nel titolo della mostra. “Non si fermano i processi sociali né con il crimine né con la forza […]. Molto più prima che poi, di nuovo, si apriranno grandi viali per i quali passerà l’uomo libero per costruire una società migliore” 11 affermò, poco prima di morire, probabilmente suicidandosi per non cadere in mano ai golpisti. Si inaugurò così una feroce dittatura militare, che si rese colpevole di crimini contro l’umanità   e   della   repressione   degli oppositori politici tramite censura, torture ed eccidi sistematici. Nei 17 anni in cui Pinochet fu al potere, fino al ‘90, ricevette l’appoggio politico ed economico degli Stati Uniti, nonché una benedizione da parte di Papa Giovanni Paolo II. Quest’ultimo gli inviò anche una lettera di solidarietà quando nel 1998 fu arrestato a Londra, facendo pressioni sulle autorità inglesi affinché negassero l’estradizione in Spagna, dove era stato emesso un mandato di arresto contro il generale per crimini contro l’umanità. Tale mandato suscitò l’opposizione del governo cileno nella neonata democrazia.

Le Madres de Plaza de Mayo, dal canto loro, madri dei desaparecidos durante la dittatura di Videla in Argentina (voluta sempre dagli USA e dalla CIA), pubblicarono una lettera indirizzata a Papa Giovanni Paolo II in cui pregavano Dio di non perdonare il pontefice per aver benedetto e tentato di proteggere il dittatore cileno.

Impressionante è la scena finale, intitolata Il dittatore, che raffigura Augusto Pinochet. Mentre tutte le altre scene raffiguravano un insieme di persone, delle masse protagoniste degli entusiasmi o delle tragedie dell’epoca, qui si assiste all’uomo solo al comando, al centro di una grande teca dal fondo bianco, seduto su una poltrona di pelle rossa con la divisa nera e grigia, le mani conserte e gli occhiali scuri che impediscono di vedere lo sguardo. Si ha la sensazione che tutte le voci delle moltitudini raffigurate nelle scene precedenti siano state improvvisamente messe a tacere. Tutta la condivisione, la comunicazione e il senso di comunità, che erano in vari modi estremamente presenti in quasi tutte le composizioni, vengono spazzati via dal controllo totalitario che esercita il generale dietro alle sue lenti scure. La mostra si conclude così, con il cupo silenzio di quella notte durata 17 anni.

Il popolo mapuche è sempre stato un mondo molto variegato (oggi in Cile conta 1,7 milioni di persone) e lo fu anche nel suo rapporto con la dittatura. Secondo un articolo degli antropologi Claudio Espinoza Araya e Magaly Mella Abalos, nel 1972 esistevano 40 organizzazioni mapuche, ma dopo il golpe di esse non si seppe più nulla. Gli autori, inoltre, affermano che, delle otto organizzazioni mapuche che ebbero un ruolo più rilevante nella politica nazionale durante la dittatura, due erano vicine al regime: la Sociedad Araucana e i Consejos Regionales Mapuche.    Questi    ultimi,    proseguono    gli studiosi, furono essi stessi a promuovere il negazionismo della repressione compiuta dal regime contro altre organizzazioni mapuche che si opponevano alle politiche della dittatura. I Centros Culturales Mapuche e Ad Mapu, invece, organizzazioni mapuche di sinistra, furono sempre ostili al regime e si opposero in particolare alla frammentazione delle terre indigene comunitarie, imposta da un decreto legge del 1978. Quest’ultimo trasformava i títulos de merced, che erano attestazioni del diritto di una comunità indigena ad abitare un proprio territorio ancestrale, in titoli di proprietà privata individuali, soggetti come tali al libero mercato e confertiti a singoli mapuche. Già con la conquista militare dell’Araucanía nel 1883 (la fine di quella che è passata alla storia come pacificación de la Araucanía12, ma fu in realtà oltre un ventennio di sanguinosa devastazione del territorio dei mapuche), questi ultimi avevano perso il 95% delle proprie terre, dato che i títulos de merced riconoscevano loro il diritto solo a 500 mila ettari dei 10 milioni che abitavano precedentemente (per dare un’idea, 10 milioni di ettari equivalgono a circa un terzo della superficie del territorio italiano, nonché al 13% dell’attuale superficie del Cile, mentre 500 mila ettari corrispondono all’incirca all’estensione della provincia di Palermo o di Udine). Inoltre, nel 1927 venne promulgata la prima legge di divisione delle terre comunitarie (sarebbe stata derogata al 1934), che divise il 31% delle comunità indigene esistenti all’epoca. Secondo Espinoza e Mella, il decreto legge varato da Pinochet, attraverso la consegna di 74 mila titoli di proprietà individuali, intendeva dividere le circa duemila comunità rimaste unite. Se i Romani, come esprime la massima divide et impera13, sottomevano gli altri popoli non solo con la forza, ma anche frammentandoli in fazioni rivali, il regime frammentò la terra stessa dei mapuche, per cercare subdolamente di distruggere il tessuto sociale fondante del popolo mapuche: vivere in comunità. Infatti, dietro la retorica dell’uguaglianza (il giornale Diario Austral di Temuco commentò il decreto legge titolando: “Il popolo mapuche ha uguali diritti”), si celava invece la volontà di assimilazione al modello neoliberale e individualista imposto dal regime. Il Ministro dell’Agricoltura, infatti, affermò: “In Cile non ci sono indigeni: sono tutti cileni”14.

La repressione violenta degli oppositori, fra cui si annoveravano molte comunità mapuche (solo Ad Mapu ne rappresentava oltre 1.350), unita alla frammentazione delle terre indigene, contribuì alla disarticolazione del movimento mapuche. Inoltre, è chiaro quanto dal decreto legge emergesse una concezione della terra come merce che era non solo occidentale, ma anche figlia del neoliberismo sfrenato imposto dalla dittatura. Una concezione quanto mai lontana dal rapporto che storicamente i mapuche hanno intrattenuto con la terra, vale a dire una relazione spirituale, come fra madre e figli, del tutto avulsa da ogni connotazione commerciale e di proprietà. Prima dell’arrivo degli spagnoli, un mapuche non avrebbe mai neanche concepito l’idea di vendere la terra. Perciò vari dirigenti mapuche bruciarono pubblicamente i nuovi titoli di proprietà, che consideravano una legalizzazione dell’esproprio dei loro territori. Questo costò loro il carcere, la tortura, e per alcuni anche la morte. Secondo il rapporto del 2003 della Commissione di Verità Storica e Nuova Relazione con i Popoli Indigeni, istituita dal presidente Lagos, sotto la dittatura ci furono 136 persone mapuche uccise o desaparecidas. Tuttavia, lo studioso mapuche Raúl Rupailaf ritiene che il numero di dirigenti mapuche giustiziati, desaparecidos o torturati continua a essere sconosciuto, perché in molti casi i familiari “per paura, discriminazione o dimenticanza, non presentarono le denunce dovute”15.

Furono perseguitati in particolare vari dirigenti di Ad Mapu, che subirono la distruzione della propria sede e furono deportati nel deserto di Atacama per 90 giorni per ordine del Ministero dell’Interno. Ciononostante, continuarono a protestare e denunciarono tali crimini anche all’ONU, che inviò nella zona due osservatori sui diritti umani. Uno affermò che in Cile esisteva una “repressione storica e istituzionalizzata”16, l’altro considerò come assolutamente ingiusto il sistema di distribuzione delle terre applicato dalla dittatura.

Tuttavia, non mancò fra i mapuche chi sostenne apertamente Pinochet: nel 1989 la “Giunta Generale di lonko e caciques17 di Nueva Imperial” lo nominò Ulmen F’ta Lonko, cioè “capo massimo, conduttore e guida”18. Ancora oggi ci sono mapuche che rimpiangono il suo regime.

Ma che cosa pensano oggi in Cile di tutto questo? Ci sono state molte iniziative di carattere culturale per questa ricorrenza, di segno opposto. Gli Inti Illimani, ad esempio, hanno scritto un album di quattro canzoni dal titolo El país que soñamos (“Il Paese che sognamo”), che “è una registrazione audiovisiva realizzata nei luoghi della memoria dello Stadio Nazionale (a Santiago del Cile, ndr) a proposito della commemorazione dei 50 anni del colpo di Stato. Uno sforzo di preservazione della nostra memoria storica in opposizione al negazionismo tanto in voga nei nostri giorni” 19 scrivono nella didascalia al video che hanno pubblicato su YouTube (è possibile vederlo a questo link). Vivendo per un anno in Cile (precisamente nella piccola cittadina di Malalhue) per svolgere il servizio civile con l’ONG COMI, mi sono reso conto anch’io che il negazionismo lì è effettivamente ancora molto presente. A Malalhue c’è, ad esempio, chi sostiene che sotto la dittatura non ci fosse censura: questa foto di un rogo di libri a opera di militari del regime è il commento più opportuno. C’è chi dice (tra l’altro all’interno del Centro Comunitario, sede della delegazione municipale di Malalhue) che apprezzava Pinochet perché teneva a bada gli stupratori: per capire chi fossero gli stupratori, basterà ricordare che l’8 marzo scorso in Cile sono apparsi molti manifesti di donne, di cui alcune anche incinte, stuprate, torturate e uccise per le loro idee politiche dai militari della giunta di Pinochet. Forse chi espresse quell’opinione sul generale intendeva dire che, se un Paese ha problemi di sicurezza, si possono togliere i criminali dalla strada mettendoli al governo.

A Malalhue c’è anche chi afferma che sotto il governo della UP ci furono più morti che sotto la dittatura di Pinochet. In realtà, ci fu una sola persona uccisa dalla forza pubblica durante il governo Allende: René Saravia Arévalo. Il Presidente assunse la piena responsabilità di quella morte e licenziò immediatamente i capi della PDI, la principale istituzione di polizia del Paese. Sotto Pinochet ci furono invece 28.459 torturati, 2.125 giustiziati, 1.102 desaparecidos e circa 200 mila esiliati20. Ma in Cile c’è chi l’11 settembre scorso ha festeggiato (con una grande risonanza sui social, internet e YouTube) perché Pinochet avrebbe “liberato il Cile dal comunismo”.

Purtroppo nel Paese australe il negazionismo è spesso attivamente promosso da esponenti delle istituzioni statali e trova terreno fertile nella disinformazione e nell’ignoranza di non pochi cileni riguardo alla storia del proprio Paese, fenomeno presente anche in Italia (dove riguardo al fascismo non mancano negazionisti e nostalgici), ma che si manifesta con proporzioni ancor più allarmanti nel Paese sudamericano. Nel 2012, ad esempio, il Consiglio Nazionale dell’Educazione cileno ha approvato il cambiamento di espressione per riferirsi al pinochetismo da “dittatura militare” a “regime militare” nei libri di storia per gli alunni da 6 a 12 anni. Nel 2021 il deputato Johannes Kaiser, del Partido Republicano de Chile, affermò che i prigionieri di Pisagua,uno dei prinicipali centri di detenzione della dittatura di Pinochet, “bien fusilados” estaban: i militari avrebbero fatto bene a fucilarli. Un’altra deputata dello stesso partito, Gloria Naveillán, ha affermato a fine agosto che il fatto che gli abusi sessuali compiuti da uomini del regime di Pinochet fossero sistematici faccia parte di una “leggenda metropolitana”, motivando così il suo voto contrario a un progetto di risoluzione parlamentare per condannare la violenza sessuale esercitata dalla dittatura. La deputata Mercedes Bulnes ha replicato che sapeva per sua propria esperienza che la violenza sessuale durante il periodo totalitario era stata una realtà e che fu sistematica. Una sua collega, Claudia Mix, ha ricordato il caso di Ingrid Oleröck, che violentava le donne con i cani.

In Cile è un vero e proprio tabù parlare del colpo di Stato e della dittatura e c’è chi afferma pubblicamente che esso fu giusto o che nega le atrocità avvenute o, peggio, che esse furono pienamente giustificate. In Italia, per lo meno, non c’è un tabù a parlare della Resistenza e, se qualcuno ne parla a un gruppo di persone nella media, probabilmente esse o saranno d’accordo, o non esprimeranno il loro disaccordo per non essere messe in minoranza. In Cile, invece, spesso non c’è rispetto per le vittime della dittatura, verso la quale ci si lascia andare a commenti nostalgici. In questo senso, oggi fra il pinochetismo cileno e il neofascismo italiano c’è una differenza non di qualità, ma di quantità, che rende il primo fenomeno ancor più preoccupante del secondo. Un’inchiesta condotta quest’anno dal centro cileno CERC (Centro de Estudios de la Realidad Contemporánea) e dal MORI (Market & Opinion Research International) ha riscontrato che il 36% dei 1.000 cileni intervistati ritiene che i militari “avevano ragione” nel compiere il colpo di Stato. Sembra strano pensare che oggi oltre un terzo dei cileni avrebbe aborrito l’esposizione su Allende. Forse l’ex presidente ha più sostenitori in Spagna e in Italia di quanti non ne abbia oggi in Cile. Del resto, nemo profeta in patria, dicevano i Romani: nessuno è profeta in patria. Le lotte per la liberazione dei popoli e per l’estensione di diritti alle masse hanno spesso assunto un carattere internazionale nella storia (si pensi alle Brigate internazionali che combattevano contro Franco durante la guerra civile spagnola, ma anche la Resistenza          italiana al nazifascismo ebbe un carattere internazionale), il che, secondo vari leader politici (basterà citare Lev Trockij e Altiero Spinelli), è un elemento fondamentale di questi movimenti, il che emerge anche dall’episodio succitato del Winnipeg. Perciò, oggi più che mai, non si può lasciare che ogni Paese “lavi i panni sporchi a casa propria”, marcendo nei propri nuovi fascismi, fra la persecuzione dell’opposizione interna e l’indifferenza degli altri Stati. Nel ‘98, come abbiamo visto, le istituzioni spagnole volevano arrestare Pinochet, mentre il governo cileno lo difendeva. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli non può mai sfociare nella difesa di chi ha perpetrato crimini contro l’umanità, che vanno denunciati oltre i confini e gli oceani. Il senso della cooperazione internazionale è anche questo: sostenere la valorizzazione della cultura e dell’identità di un popolo, che non può non passare anche per il recupero della (vera) memoria storica. Senza tale consapevolezza, infatti, i popoli del Sud del mondo, come quelli di ogni dove, non saranno mai padroni di scegliere il proprio futuro e cadranno vittima delle manipolazioni del potente di turno.

“Meditate che questo è stato (…) o vi si sfaccia la casa” 21 ammoniva Primo Levi contro il negazionismo all’inizio di Se questo è un uomo. Sepúlveda, dal canto suo, affermava che “raccontare è resistere”, citando Guimarães Rosa all’inizio di un suo libro22. Ricordare la verità storica è infatti un modo per resistere e riappropriarci della storia, anche nel senso di fare i conti con le ferite di un passato tragico, per poter decidere del nostro futuro, cosicché non si ripetano mai più – nunca más – quelle atrocità. Se questo diverrà un impegno collettivo, allora la storia sarà davvero nostra.

 

Luigi Donadio

ex Casco Bianco con COMI a Malalhue, Cile 6 ottobre 2023

 

Note bibliografiche

Allende, S. (1970-73). Allende a 50 años de su elección. Discursos fundamentales, Ediciones Biblioteca del Congreso Nacional de Chile (BCN), ottobre 2020. Libro interamente scaricabile gratuitamente a questo link.

Espinoza Araya, Claudio; Mella Abalos, Magaly, (2013) “Dictadura militar y movimiento mapuche en Chile”, Pacarina del Sur [online], anno 5, n. 17, ottobre-dicembre, 2013. ISSN: 2007-2309.

Consultato il 4 ottobre 2023. Disponibile online a questo link. Levi, P. (1947). Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1989.

Miranda, P., Loncón, E., Ramay, A. (2017). Violeta Parra en el Wallmapu. Su encuentro con el canto mapuche, Pehuén, Santiago de Chile 2017.

Sepúlveda, L., e Arpaia, B. (2002). Raccontare, resistere, Guanda, Milano 2002.

 

 

1Allende 1973, cit. in Allende 1970-73, p. 516, T. d. A.

2Per maggiori informazioni sulla mostra e possibili visite guidate cliccare qui.

3N. d. T.

4T. d. A.

5Allende 1972, cit. in Allende 1970-73, p. 405, T. d. A.

6Allende 1970, cit. ibidem, p. 37, T. d. A.

7Allende 1972, cit. ibidem, p. 404-405.

8A riguardo si veda il bellissimo libro Violeta Parra en el Wallmapu (Miranda, Loncón e Ramay 2017), che mette in luce quest’aspetto – fino ad allora poco noto – del percorso della cantantautrice.

9Mi riferisco all’esposizione a Madrid, che ho visitato personalmente.

10T. d. A.

11Allende 1973, cit. in Allende 1970-73, p. 516, T. d. A.

12“Pacificazione dell’Araucania”. Gli spagnoli chiamarono i mapuche “araucanos”, ereditando il termine, che significa “ribelle selvaggio”, dagli Inca, che avevano invaso parte del loro territorio nel XV secolo. “Araucanía” fu il termine usato dagli spagnoli (e poi dai cileni) per riferirsi al territorio dei mapuche, che essi chiamano Wallmapu (“la terra circostante”).

13“Dividi e conquista”.

14Espinoza Araya e Mella Abalos 2013, T. d. A.

15T. d. A.

16Espinoza Araya e Mella Abalos 2013, T. d. A.

17Vale a dire “capi”. Lonko è una parola in mapudungun che designa una figura con autorità politiche e religiose. Cacique è invece una parola spagnola che indica capi di comunità anche di altri popoli indigeni dell’America Latina.

18T. d. A. dalla traduzione in spagnolo.

19T. d. A.

20 Le cifre si riferiscono al Rapporto Rettig del 1991 e includono anche quelle aggiunte nel 2004 dal rapporto Valech. Le informazioni su questi dati e il caso Arévalo sono tratte da questo articolo.

21Levi 1947, p. 1.

22Sepúlveda e Arpaia 2002.

 

 

Cosa mi mancherà del Servizio Civile

Napoli,

24 giugno 2023

Solo tre giorni fa sono tornato da quest’incredibile esperienza che è stato il mio anno di servizio civile con COMI a Malalhue, in Cile. Mi sento in un caleidoscopio di emozioni che ancora devo metabolizzare. La cosa più bella e che più mi manca di quest’anno adesso è la relazione con le mie alunne e i miei alunni dei corsi di chitarra e di italiano. Ho in mente l’immagine nitida delle dita di una mia alunna mapuche, che all’inizio erano goffe, ma in poche settimane iniziarono quella danza sulle corde di chi sta prendendo confidenza con lo strumento. Mi stupiva come ascoltare un bambino che impara a parlare. Sembrava qualcosa di magico: una persona anche grazie a me aveva imparato a usare un linguaggio nuovo, in grado di trasmettere emozioni anche al di là delle barriere linguistiche e culturali. Mi sentivo come un artigiano, un fabbro dell’immateriale, come se insieme alle alunne stessi forgiando qualcosa sul momento. Mi mancano i loro occhi vispi e curiosi, le battute, le risate che ci facevamo insieme, le confidenze che a volte mi hanno fatto. Una delle cose che più mi facevano piacere era di essere riuscito a costruire con alcune di loro delle relazioni autentiche, come pure il fatto che, almeno loro in quel contesto, non mi vedessero come “l’italiano”, ma come Luigi. La stessa alunna di cui parlavo prima all’inizio diceva, fra il serio e il faceto, che loro, per il fatto di non saper ancora suonare, erano “analfabete”. Uno dei momenti più belli del laboratorio, invece, fu quando lei fece un discorso per dire che imparare a suonare le era servito in termini di autostima. Ora, quando si vedeva con dei suoi parenti, diceva, mostrava quello che aveva imparato e cantavano insieme. Pensai che quello era l’obiettivo ultimo del laboratorio, ancor di più dell’imparare a suonare, che eravamo riusciti a portare a termine: costruire speranza (che è il motto del COMI) e far sì che le persone coltivino degli interessi, amino qualcosa, credano di nuovo in se stesse nonostante le molte problematiche di quel contesto, carente, fra l’altro, di spazi di aggregazione. Spesso sono uscito dalle mie lezioni (sia di chitarra che di italiano) facendo letteralmente i salti di gioia. Ho scoperto che mi piace molto insegnare in questi contesti di educazione non formale, anche se forse non mi piacerebbe in una scuola. Mi hanno ringraziato e alcuni mi hanno fatto addirittura regali. Alcuni alunni, prima che io partissi, mi hanno invitato a casa propria o sono venuti a trovarci a casa nostra, salutandoci con affetto. Mi hanno dato le prime soddisfazioni professionali della mia vita e non li dimenticherò mai. Mi sto sentendo con alcuni di loro. C’è chi mi chiede ad esempio: “Com’è l’Italia?”. Mi piace questo candore e questa curiosità di fronte alla mia diversità. Una volta delle mie allieve mi domandarono: “Ma tu quando sei venuto hai visto l’oceano dall’aereo?” E mi guardavano stupite come se venissi da un altro pianeta, stessa reazione di chi a volte mi chiedeva da dove venissi, per poi esclamare: “Dall’Italia?! Wow… e che ci fai qui in Cile?”. La condizione di straniero è a volte difficile, ma anche affascinante e dà una prospettiva per certi versi privilegiata sul contesto in cui si è inseriti: se da un lato all’inizio l’outsider spesso non conosce le dinamiche locali e si trova spaesato, dall’altro non è abituato alle contraddizioni di quella società e, proprio per questo, a volte può notarle e decostruirle meglio.

Mi mancherà anche avere la bella sorpresa di visite inaspettate da ragazzi che stavamo conoscendo (lì spesso la gente non avvisa prima di passare da casa di un amico o di un parente) e di trovarci a parlare e a scherzare con loro la sera fuori al giardino. Mi mancherà lavorare al Centro Comunitario e ascoltare le canzoni di Víctor Jara in sottofondo e mi mancheranno degli incontri casuali, come quello che ebbi con due impiegati della nettezza urbana, che, riconosciutomi come “l’italiano”, mi salutarono dicendo: “¡Hola Italia!”  e, dopo qualche chiacchiera e battuta, mi dissero: “¡Bienvenido a nuestro país!” (Benvenuto nel nostro Paese!). Piccole cose di una quotidianità fuori dagli schemi, tanto che varie persone in Italia non hanno capito assolutamente il senso di quello che sono andato a fare in Cile. Questa non convenzionalità e l’incontro fra mondi diversi mi stimolano e mi affascinano enormemente. Tale incontro non è sempre innocente o roseo e porta con sé le sue contraddizioni, ma anche una bella dose di leggerezza e uno sguardo ironico sul mondo.

Luigi Donadio

Casco Bianco COMI a Malalhue, Cile

Verso l’utopia dell’interculturalità

La differenza tra multiculturalità e interculturalità fa parte dell’ABC degli studi sociali, si apprende il primo giorno di lezione e ci accompagna lungo tutto il nostro percorso professionale. Questi due concetti sono così importanti da essersi diffusi dall’ambito accademico a quello quotidiano attraverso i mass media: è comune leggerli o ascoltarli nelle notizie legate alla questione dell’immigrazione, ma è facile confonderli o addirittura pensare che significhino la stessa cosa, dato che in molte occasioni questi media ne danno per scontato il significato, causando più disinformazione che informazione.

Per chiarire i dubbi, secondo il dizionario CEAR (Commissione spagnola per l’aiuto al rifugiato), il multiculturalismo si riferisce alla presenza nello stesso luogo di culture diverse che non sono correlate tra loro o che possono o meno avere un rapporto di coesistenza. Mentre secondo l’autore Carlos Giménez Romero, “l’interculturalità è un rapporto di armonia tra le culture; in altre parole, un rapporto di scambio positivo e di convivenza sociale tra attori culturalmente differenziati”.

Sulla base di queste definizioni, possiamo affermare che il Cile in generale e Malalhue in particolare sono un territorio multiculturale, dove la cultura cilena egemonica1 coesiste con culture come quella peruviana, venezuelana, boliviana, haitiana o mapuche. Quest’ultima, la cultura mapuche, è fortemente rappresentata dalla quantità di popolazione presente nel territorio: fino al 31,83% della popolazione della comuna di Lanco si dichiara mapuche2. Tuttavia, è una cultura che rischia fortemente di scomparire a causa della lunga storia di persecuzione, repressione e assimilazione forzata di questo popolo indigeno. Tanto che ci sono mapuche che ritengono che prima di entrare nell’interculturalità si deve recuperare e rieducare in tutto ciò che riguarda la cosmovisione mapuche, per evitare il rischio di accettazione e assimilazione di un’altra cultura dovuta all’ignoranza della propria. Nelle parole di Victorino Antilef Ñanco, ex membro della Commissione costituzionale e residente del Lof Mapu di Antilhue,

“Quello che bisogna fare è avviare, indurre un processo interno affinché la gente torni a valorizzare e praticare antichi saperi espressi in pratiche come la tessitura, l’oreficeria, la creta, i telai, il cibo, il che è un sistema abbastanza completo, sviluppato in ambiente Mapunche.”

 

 

La nostra ONG COMI vuole realizzare questa utopia che sembra essere l’interculturalità a Malalhue, ed è con questo scopo che realizziamo diverse attività, come la scuola di lingua italiana o l’evento Ethno Chile.

A seguito dell’incalzante richiesta della popolazione e grazie all’aiuto della nostra responsabile della sicurezza, nonché insegnante di storia del Liceo “República de Brasil”, Diosa del Rosario Villaroel Pineda, la scorsa settimana è stata inaugurata la scuola di italiano dopo che, con nostra sorpresa, si erano riempiti tutti i posti in due giorni dalla pubblicazione dell’attività.

La lezione inizia ogni mercoledì alle 18:30 nella biblioteca comunale “Gabriela Mistral”, dove gli studenti imparano le basi della lingua italiana, come i saluti e il vocabolario quotidiano, in un contesto di educazione non formale che funge da pretesto per svolgere un scambio culturale e linguistico tra le persone partecipanti.

Fra queste attività, va notato quanto sia stato importante per noi promuovere l’incontro internazionale di musica popolare Ethno Chile 2023 a Malalhue. Ethno è il programma dell’ONG Jeunesses Musicales International per musica folclorica, tradizionale e world music. Fondata nel 1990, si rivolge a giovani musicisti con la missione di far rivivere e mantenere vivo il patrimonio culturale mondiale. Al centro di Ethno c’è il suo approccio democratico di apprendimento tra pari in base al quale i giovani si insegnano a vicenda la musica dei propri paesi e culture. È una pedagogia non formale che si è affinata negli ultimi 33 anni, abbracciando i principi del dialogo e della comprensione interculturale.

Per questo evento abbiamo messo in contatto il gruppo di musicisti Ethno Chile (provenienti da Germania, Austria, Svezia, Francia, Italia, Estonia, Giappone, USA, Brasile e Cile) con il gruppo locale di musica mapuche Meli Kvrvf. Hanno trascorso la giornata condividendo e imparando insieme una canzone del gruppo e integrando gli strumenti tradizionali mapuche al resto dell’orchestra attraverso questa pedagogia non formale e democratica.

Guillermo Neftalí Jaque Calfuleo, membro del gruppo Meli Kvrvf nonché educatore tradizionale e artista culturale, del Lof Külche mapu, Puquiñe, nella comuna di Lanco, ci ha raccontato come ha vissuto l’esperienza:

“L’interazione è stata molto piacevole, molto intima, sincera per così dire. Siamo stati in grado di condividere, nonostante le barriere linguistiche, ciò che è la musica mapuche, il tema e presentare gli strumenti.

È stato molto arricchente potersi liberare dai pregiudizi in un’esperienza di condivisione con altre persone di altri luoghi e culture.

…non ci aspettavamo l’invito al concerto di chiusura a Villarrica e lo abbiamo accolto con grande gioia, è stata un’esperienza che non capita tutti i giorni, soprattutto per persone mapuche che fanno musica mapuche più tradizionale, una bellissima opportunità che resterà nella memoria per sempre.”

Come abbiamo accennato all’inizio, potrebbe sembrare che raggiungere l’interculturalità sia un’impresa impossibile, e, quand’anche fosse possibile, non è qualcosa che si ottiene in due giorni; deve essere promossa dallo Stato attraverso leggi, piani e programmi che diventino efficaci e approdino nella realtà di scuole, aziende, comuni, comunità ecc. E mentre tutto questo arriva, ci auguriamo che le nostre attività, se non realizzano quella comunione culturale, facciano presente la realtà multiculturale del territorio e ci avvicinino a quell’obiettivo a lungo termine che è l’interculturalità.

 

 

Manuel Pastor Tomás

Volontario COMI in Cile

 

 

 

1L’egemonia culturale si riferisce al dominio mantenuto tramite mezzi ideologici o culturali. Di solito si ottiene attraverso le istituzioni sociali, che consentono a chi detiene il potere di influenzare fortemente i valori, le norme, le idee, le aspettative, la visione del mondo e il comportamento del resto della società.

 

2Fonte: Censos de Población y Vivienda (Censimenti di Popolazione e Abitazione) 2002 e 2017, Instituto Nacional de Estadísticas (INE).

Riparte “Odiare non è uno sport”

Campioni e campionesse, società sportive, associazioni, 
scuole e studenti uniti per dire no all’hate speech nello sport

Riparte la campagna

ODIARE NON E’ UNO SPORT

Un progetto per prevenire e contrastare i messaggi d’odio online in ambito sportivo

Secondo la ricerca di Coder (UniTo) del 2020, sulle pagine Fb delle 5 principali testate sportive nazionali tre post su quattro ricevono commenti di hate speech

Veicolo di crescita e confronto, palestra di vita, lo sport  coinvolge milioni di ragazzi e ragazze nel nostro paese ed è un importante terreno di inclusione e aggregazione sociale. Allo stesso tempo però lo sport è divenuto anche, e sempre più, terreno di scontri, discorsi e gesti d’odio, che nella dimensione digitale si potenziano e diffondono in maniera esponenziale.

È così che, anche grazie all’aiuto di diversi campioni azzurri, in occasione della Giornata Mondiale dello Sport, riprende nuovo slancio la campagna #Odiarenoneunosport, sostenuta dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e promossa dal Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo (Cvcs), con un fitta rete di partners su tutto il territorio nazionale.

Avviata nel 2020 con un primo studio del fenomeno affidato all’Università di Torino (Centro Coder) che ha elaborato il primo Barometro dell’Odio nello sport, monitorando i principali social media e le testate giornalistiche sportive, la campagna ha raccolto le testimonianze di campioni dello sport azzurro come Igor Cassina, Paola Egonu, Stefano Oppo, Alessia Maurelli, Frank Chamizo, Valeria Straneo, Angela Carini e tanti altri. Al loro fianco le straordinarie storie di  inclusione sociale avvenute attraverso lo sport sul territorio italiano e l’adesione spontanea di decine di sportivi, professionisti e dilettanti, associazioni, scuole o semplici cittadini che sostengono la campagna ritraendosi con la scritta Odiare non è uno sport . Qui la Gallery

 

Riparte oggi con nuovo slancio non solo la campagna di sensibilizzazione, che si svolgerà contestualmente alla delicata fase della preparazione Olimpica degli Azzurri verso Parigi 2024, ma anche un importante progetto di prevenzione e contrasto all’hate speech. Progetto che porterà alla realizzazione del secondo Barometro dell’Odio nello sport e al coinvolgimento in percorsi formativi interattivi e multimediali sulle dinamiche dell’odio nello sport 600 docenti di scuole secondarie, 540 allenatori sportivi del target giovanile, 300 dirigenti di società/ASD, 2200 studenti di scuole secondarie di I e II grado e 900 giovani sportivi della fascia 11-18.

Saranno costituite anche 9 squadre territoriali di attivisti digitali  anti-odio, composte da studenti e giovani coinvolti nelle attività di formazione, che condurranno azioni di contrasto all’hate speech sportivo in chat e social frequentati dai giovani, attivando reazioni e risposte di valenza dissuasiva ed educativa.

Tutti insieme, con nuovo entusiasmo e determinazione e un obiettivo comune: dire no all’odio nello sport e nella vita.

Per interviste e contatti: ufficiostampa@cvcs.it, 3469546862

Il progetto è sostenuto dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo e promosso dal Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo, in partenariato con 7 ong italiane con ampia esperienza nell’educazione alla cittadinanza globale (ADP, Aspem. CeLIM, COMI, COPE, LVIA, Progettomondo),  gli enti di promozione sportiva CSI e Libertas, Informatici senza Frontiere e Impactskills srl per lo sviluppo delle soluzioni tecnologiche e due Atenei (UniTo e UniTs) per la realizzazione della ricerca e la supervisione scientifica

Semi di speranza

Semi di speranza

Uno, due, tre e quattro. Un piede davanti all’altro, senza perdere l’equilibrio, e poi si ricomincia. Uno, due, tre e quattro. I semi di fagioli scivolano dalle nostre mani nel solco tracciato dall’aratro. Poi li pestiamo a piedi nudi sulla terra, facendo attenzione a non uscire dai solchi. “Togliti le scarpe!” mi aveva detto Marta, che coglie ogni occasione possibile per camminare nella natura a piedi scalzi. Io, all’inizio un po’ titubante, le avevo tenute, ma poi le diedi ragione: si riempivano di terra e non avevo abbastanza controllo sul movimento del piede. Quando le tolsi, il contatto con la terra soffice e umida, appena rimestata dall’aratro, fu una sensazione che non volevo più lasciare, il contatto quasi inebriante con la Ñuke Mapu (come chiamano i Mapuche la Madre Terra), come se risvegliasse in me qualcosa di ancestrale che non so se avessi mai conosciuto. “Il camminare ti entra da terra” diceva una canzone che cantavamo sempre agli scout. Sotto un sole cocente, fra gli odori della campagna sureña (del sud del Cile), compivamo il gesto imperituro della semina, ripetendolo a ogni passo come una sorta di meditazione, di mantra.

 

Noi volontari – Alvise, Manuel, Marta e io – in servizio civile con l’ONG COMI (Cooperazione per il mondo in via di sviluppo) ci sentivamo onorati di essere stati invitati dal nostro partner locale, Medema (Mujeres Emprendedoras de Malalhue), a prendere parte alla semina dei fagioli, che con molti sacrifici, scarsi mezzi e un magro ricavo, da tre anni porta avanti. Per noi, cresciuti in grandi città, fu un’esperienza impagabile. Per Manuel e Marta era la seconda volta che volentieri prendevano parte a questo evento comunitario, che rientra nella parte agricola del nostro progetto. Quest’ultimo intende sostenere la minoranza mapuche di Malalhue, nel sud del Cile, dove ci troviamo da luglio scorso. I Mapuche sono un popolo indigeno che vive nelle zone meridionali del Cile e dell’Argentina e che, secondo l’Instituto Nacional de Estadísticas (INE), rappresenta il 10% della popolazione cilena e il 31% di quella della comuna di Lanco, in cui ricade Malalhue. Il terreno che stavamo seminando si trova all’interno della Comunità Indigena rurale di Panguinilahue Alto, nelle vicinanze di Malalhue. Il progetto di servizio civile in cui siamo impegnati intende supportare la minoranza mapuche locale tramite la valorizzazione del patrimonio culturale indigeno e il sostegno ai giovani locali in un percorso di formazione culturale e artistico, per metterli in condizione di programmare concretamente il proprio progetto di vita personale e professionale. Fra le varie attività previste rientra l’aiuto nel lavoro agricolo a Medema, che è un’organizzazione al femminile di contadine e artigiane, prevalentemente mapuche.

“Cantaci una canzone di Violeta Parra!” mi disse Marta. “Para olvidarme de ti voy a cultivar la tierra” intonai, cantando l’inizio de La jardinera, mentre continuavamo a seminare, per poi continuare con El guillatún e Gracias a la vida.

La parte della semina (ngan, come si dice in mapunzungun, la lingua dei Mapuche), che preferivamo era quella in cui bisognava coprire ogni solco, con i piedi che si immergevano nella nuda terra e dai due cumuli laterali la portavano al centro. “È come accarezzare la terra!” dissi, al che Marta annuì sorridendo con i suoi occhi verdi.

In un momento di pausa, mentre chiacchierava con le donne di Medema, si girò distratta dal sonoro russare di Alvise e vide lui, Manuel e me distesi lunghi lunghi per terra, sprofondati in una “siesta a pierna suelta”, come dicono in spagnolo, un sonno imperturbabile (“a gamba sciolta”, letteralmente). Eccoci là, tre cittadini catapultati nel lavoro dei campi! Personalmente era proprio per questo che avevo voglia di sporcarmi le mani, di lavorare sotto al sole cocente: perché il luogo in cui si è nati e cresciuti non può dire l’ultima parola su ciò che siamo, che invece è dato dalle nostre scelte, dalle sfide che accettiamo – nonostante le difficoltà che comportano –, come quella di vivere per un anno dall’altra parte del mondo, in una realtà completamente diversa da quella a cui eravamo abituati. Ci siamo rifocillati con acqua e farina tostata, un alimento diffuso in questa zona ed apprezzato perché disseta ed è nutriente. Dopo la nostra siesta, abbiamo ascoltato di credenze ancestrali mapuche sulla semina: ad esempio, non bisogna seminare il mais quando si ha fame, altrimenti i chicchi cresceranno piccoli e secchi. Del resto, la terra ha un’importanza fondamentale nella cosmovisione e nella spiritualità dei Mapuche, tanto che il loro stesso appellativo deriva da mapu, “terra”, e che, “gente”, e viene tradotto come “gente della terra”. In un territorio in cui quest’ultima viene spesso inquinata o prosciugata dalle aziende forestali, e in cui l’uomo molte volte intrattiene con essa solo legami commerciali, i Mapuche continuano ad avere con la terra un profondo legame spirituale e sentono di appartenerle piuttosto che esserne i proprietari. Aveva detto bene Marta: quella semina era un’esperienza spirituale. Perciò, speriamo che  quelli che abbiamo piantato a Panguinilahue Alto, in quel giorno assolato di novembre, siano semi di resistenza. Ma, ancora di più, il nostro auspicio è che siano semi di speranza, parafrasando il motto del COMI “costruttori di speranza”.

Appena finimmo eravamo quasi esultanti: ci guardammo soddisfatti, fieri. Avevamo condiviso tutto di quella giornata: la fatica, il sudore, il cibo, le conversazioni, le risate. Le donne di Medema si misero distese all’ombra al bordo del campo, a riposare guardando il frutto del loro lavoro. Facemmo altrettanto.

 

Dato che siamo un’ONG italiana, per pranzo non poteva mancare una magnifica insalata di pasta, che Alvise cucinò per tutti. Quando andammo a mangiare avevamo tutti le mani (e i piedi) pieni di terra. Tutti si sciacquavano soltanto le mani, senza usare sapone. Vedendo che io non facevo altrettanto, una delle donne di Medema mi chiese se volessi sciacquarmele, ma io domandai se ci fosse del sapone. “È terra, quando morirai sarai terra anche tu” fu la sua lapidaria risposta. Sul momento ero stupito e perplesso e andai comunque di nascosto a lavarmi le mani in bagno. Ma ora, pensandoci, lo collego al profondo legame che hanno i Mapuche con la Ñuke Mapu. Mi rendo conto, quindi, che anche quest’episodio fa parte delle differenze culturali che sono il nostro pane quotidiano qui, così difficili da gestire a viverle sulla propria pelle, eppure così affascinanti. Solo ora, ripensandoci, mi rendo conto di quello che questi piccoli dettagli quotidiani significano – se noi siamo in grado di dare loro questo significato –, cioè quella sensazione di guardare il mondo a testa in giù, con occhi finalmente nuovi, che sono usciti da quella bolla di Occidente in cui siamo nati e cresciuti e che sembrava un destino ineluttabile. È una sensazione di freschezza, eccitazione, curiosità. Una sensazione che mi fa sentire vivo.  

 

 

Luigi Donadio,

Casco Bianco COMI a Malalhue, Cile

 

21 febbraio 2023

Le attività musicali del COMI a Malalhue, Cile (parte 2)

Non solo chitarra

Di Luigi Donadio

Fra i musicisti cileni di fama internazionale non si possono non menzionare anche gli Inti Illimani. Suonare le loro canzoni qui in Cile è per me un grande onore e un’emozione unica. Ricordo quando andai a sentirli a Bologna a marzo scorso: tutta la platea gridava come una sola voce, in un crescendo epico: “El pueblo unido jamás será vencido!”. Il loro tour in Italia, dal nome “Vale la pena”, era incentrato sui diritti umani, in particolare dei migranti, e supportava le attività di Amnesty International Italia. Da quando ero bambino ascolto le canzoni di questo gruppo, che è come un ponte fra l’Italia e il Cile ed ha contribuito a diffondere la storia cilena anche oltreoceano: gli entusiasmi del periodo di Allende, poi il golpe e la tragedia della dittatura di Pinochet – in quegli anni si rifugiarono in Italia, dove divennero famosi durante la contestazione giovanile –, fino ad arrivare alle proteste dell’Estallido social del 2019, durante le quali è stata registrata, a Santiago del Cile, la canzone che ha dato il nome al tour. 

Oltre alla chitarra, le attività culturali del COMI si avvalgono della presenza di musicisti locali, invitati ad arricchire le altre iniziative, passando anche attraverso il programma radiofonico che gestiamo due volte a settimana nell’emittente locale Radio Comunitaria e Culturale di Malalhue, che trasmette sulla frequenza 107.5 FM e online, quindi raggiungibile anche aldilà delle frontiere locali e nazionali. Così, abbiamo intervistato nel nostro programma “Mari Mari Kom Pu Che1” Guillermo Jaque Calfuleo, musicista, liutaio originario della comunità mapuche di Puquiñe, ideatore del gruppo musicale “Meli Kvrvf” (che in mapuzungun vuol dire “Quattro Venti”), nonché riconosciuto referente della cultura mapuche. Infatti, con Jaque, si è tenuta una formazione sulla cosmovisione mapuche e i diritti indigeni, a cui hanno partecipato soprattutto donne, le quali fanno parte di MEDEMA, il nostro partner locale. Insieme anche a noi in varie occasioni abbiamo riflettuto su argomenti come la plurinazionalità, l’interculturalità, la Natura, il razzismo e sul concetto tanto caro ai popoli indigeni del Buen Vivir. 

Guillermo Jaque Calfuleo mentre suona una trutruka costruita da lui stesso. Il flauto che pende dal suo collo è una pifilka (dal mapudungun pifüllka). Entrambi sono strumenti tipici della musica mapuche.

Per sottolineare ancora l’importanza della cultura locale e affiancare sia Guillermo che le donne di MEDEMA in questa interessante esperienza formativa, è stata invitata Paola Linconao, docente mapuche in una scuola di Temuco, ma anche artista, compositrice e cantante del gruppo Inche2, il quale fonde la musica mapuche con il rock. Paola è stata invitata come motivatrice, essendo molto attiva e riconosciuta per la sua metodologia di insegnamento e promozione della cultura mapuche nelle aule scolastiche. A livello musicale ha un suo stile personale e i suoi testi sono fedeli al vissuto mapuche, proprio come quelli di Violeta Parra, per denunciare la difficile vita del popolo originario dall’arrivo del cosiddetto sviluppo, che, per dirla con le parole di Eduardo Galeano, “è un viaggio con più naufraghi che naviganti”.   

Un terzo e molto interessante incontro con i valori locali è stato introdotto dall’intervista radiofonica a Faumelisa Manquepillán, cantautrice, poetessa e scultrice. Anche lei originaria della comunità di Puquiñe e dedita alla trasmissione della cultura mapuche, è stata recentemente insignita del Premio delle Arti e delle Culture della Regione di Los Ríos 2022, insieme a Nerys Mora, apprezzata docente e agente culturale di Malalhue, nonché fondatrice del museo comunitario malalhuino “Despierta Hermano”, il quale promuove la conoscenza della cultura locale e, quindi, anche mapuche. 

Museo comunitario “Despierta Hermano”, Malalhue, Lanco.

Oltre alle interviste, lo spazio radiofonico da noi gestito trasmette musica territoriale e musica mapuche. Quest’ultima fatica a raggiungere i circuiti commerciali e a trovare spazio nelle emittenti più importanti. Il nostro compito, infatti, è quello di rinforzare il territorio, i suoi valori e la sua identità, unica e irrepetibile. 

Stiamo tenendo vari laboratori gratuiti: oltre a quello di musica, ne abbiamo uno di danze popolari europee con Marta e uno di scalata con Manuel. Prima delle feste di fine anno ci aspetta il primo saggio di danza e di chitarra, dove vedremo, per la prima volta, le abilità artistiche dei nostri allievi, rinforzate da noi nella veste di insegnanti.

Anche noi civilisti stiamo avendo modo di conoscere e apprezzare in prima persona la musica mapuche, la musica ancestrale, o i suoni della terra, come viene anche chiamata. A riguardo non si può non menzionare il kultrún, un grande e largo tamburo, considerato sacro perché è lo strumento musicale per eccellenza dello sciamanesimo mapuche. Secondo il Museo di Arte Precolombiana di Santiago, il kultrún è “un tamburo di legno (…) elaborato a partire dal tronco di un albero che rappresenta il potere della terra. Ogni machi lo decora secondo una struttura generale, ma con un proprio disegno e lo suona a suo modo. La superficie di cuoio è solcata da linee che dividono il mondo in quattro parti. Al centro c’è il luogo in cui vive la machi e intorno sono raffigurati i poteri ancestrali che la assistono. L’interno del kultrún contiene diversi oggetti magici, nonché la voce della machi da lei introdotta al momento della costruzione dello strumento. Lo strumento si suona vicino all’orecchio affinché la sua ricca sonorità riempia la percezione e faciliti la trance.”

Tornando a Violeta Parra, abbiamo un sogno, di renderle un omaggio, attraverso la presentazione del libro Violeta Parra en el Wallmapu. Su encuentro con el canto mapuche3, pubblicato nel 2017 e scritto da Paula Miranda, Allison Ramay ed Elisa Loncón. Quest’ultima è accademica, linguista mapuche e figura riconosciuta a livello internazionale per il suo ruolo di Presidente dell’Assemblea Costituente, la quale ha redatto la proposta di una nuova costituzione, rifiutata dai cileni lo scorso settembre. Il libro trae origine dalla scoperta da parte delle autrici di quattro nastri fonografici, in cui Violeta intervistava sette ülkantufe (cantori), un cantor e sei cantoras mapuche, e registrava 39 canti in mapuzungun, interpretati dai loro stessi cultori. La cantautrice cilena, infatti, visse per molto tempo a stretto contatto con il popolo mapuche e studiò a fondo la sua cultura (fu anche assunta dall’Università di Concepción per condurre ricerche etnomusicologiche), come quando, ad esempio, intervistò ogni giorno per un mese la machi (sciamana) María Painen Cotaro, che avrebbe avuto un’influenza decisiva sul lavoro creativo dell’artista, come sostiene Miranda.

Fra gli artisti cileni di fama internazionale che hanno dato voce a questi suoni ancestrali c’è anche lo stesso Pablo Neruda. In un suo intervento al Teatro Comunale di Temuco, così si esprimeva il grande poeta: «Sono arrivato ancora una volta a Temuco. (…). Tutto il popolo è venuto allo stadio per ascoltare la mia poesia. Sono salito sul palco mentre il pubblico mi salutava.

Poi ho sentito calare il silenzio e dentro quel silenzio ho sentito sorgere la più strana, la più primordiale, la più antica, la più aspra musica del pianeta. Erano gli araucani4 che suonavano i loro strumenti e cantavano per me le loro dolorose melodie. 

Mi commuoveva ancora di più. I miei occhi si annebbiarono, mentre i loro vecchi tamburi di cuoio e i loro giganteschi flauti suonavano su una scala anteriore a ogni musica. Sorda e acuta allo stesso tempo, monotona e struggente. Era come la voce della pioggia, combattuta dal vento, o il gemito di un animale antico, martirizzato sotto la terra».

In effetti, Neruda, come Violeta Parra, per la loro capacità interpretativa, sono artisti tanto amati dagli stessi Mapuche, come Elicura Chihuailaf, primo scrittore mapuche a vincere il Premio Nazionale di Letteratura 2020, che così riflette su Neruda: «In mezzo alla confusione e allo specchio appannato, presuntamente europeo, dei cileni, Neruda ha intravisto il nostro Blu, quello della nostra vita, il colore che ci abita, il colore del mondo da cui veniamo e dove stiamo andando. L’opera di Pablo Neruda è una delle possibilità di dialogo tra i mapuche e i cileni, per cominciare a incontrarci, passo a passo, nelle nostre differenze».

È questo incontro che come Caschi Bianchi5 vogliamo favorire, anche attraverso la musica e le arti. Noi continuiamo giorno dopo giorno a dare il nostro piccolo contributo a questo processo, mentre continuiamo a conoscere l’affascinante e indomito popolo mapuche.

Luigi Donadio
Casco Bianco COMI in Cile

1 Mari mari kom pu che significa in mapuzungun (la lingua dei Mapuche) “salve a tutte e tutti” ed è un saluto che ci si scambia di mattina o di pomeriggio. È interessante notare che letteralmente mari mari vuol dire “dieci dieci”. Infatti, a volte i Mapuche si salutano dandosi entrambe le mani. Il dieci sta per il numero delle dita: ognuno ne ha dieci (da cui la ripetizione), per cui le due persone, salutandosi così, si riconoscono su un piano di parità e di rispetto. 

2 Inche in mapuzungun significa “io”.

3 Il titolo del testo, non disponibile in italiano, tradotto, sarebbe, “Violeta Parra nel Wallmapu. Il suo incontro con il canto mapuche”. Il Wallmapu è il nome in mapudungun con cui i Mapuche indicano il loro territorio, che si estende fra il sud del Cile e dell’Argentina.

4 Un altro appellativo dei Mapuche.

5 Prendendo in prestito il nome da contingenti non armati dell’ONU, i volontari in Servizio Civile all’estero (inviati dall’Italia) vengono chiamati “Caschi Bianchi” e hanno il compito di operare in modo nonviolento in contesti di conflitto, potenziale o in atto.